Memoria, nostalgia, frammenti di una vita e di una esperienza creativa unica, che non sarebbe stata possibile senza lo sguardo adolescenziale rivolto ai portici, alle stradine del centro, alle chiese. La filmografia di Pupi Avati può essere letta come un’opera unica nella quale, coscientemente e a volte inconsapevolmente, tracce di una Bologna, reale e fantastica, si inseguono dal primo all’ultimo fotogramma. Una narrazione che nasce da una simbiosi che il regista racconterà, assieme al fratello, il produttore Antonio Avati, al giornalista Andrea Maioli, all’interno di Bologna Experience oggi alle 18, su prenotazione: www.palazzobelloni.com. In contemporanea verrà inaugurata una nuova sezione – dedicata proprio al lavoro del cineasta – della fortunata mostra di Palazzo Belloni (in via Barberia 19) Bologna Experience, la cui apertura è stata prolungata fino al 22 ottobre.
Avati, ha tutto il sapore di un ‘ritorno a casa’ l’incontro di palazzo Belloni.
«E’ una occasione che la città mi offre, e ne sono molto grato, per fare un bilancio. Quando si raggiunge una età matura e venerabile come la mia, 78 anni, il potere di attrazione delle radici, per quanto uno possa provare a sottrarsene, è profondo. Il richiamo dei luoghi della formazione, quella vera, quella importante, quella della definizione della propria personalità, è più forte di qualsiasi critica, pur ragionevole, si sia in grado di muovere».
Lei, a tratti, nel corso della sua carriera, si è sentito in qualche modo tradito da Bologna?
«Forse ho provato la sensazione di non essere accolto, come se non fosse ricambiato, sino in fondo, l’amore che ho sempre provato per queste mura. Ma, per quanto andassi lontano dalla mia città, a girare, alla fine, il desiderio di Bologna emergeva sempre. Sia nei panorami interiori dei protagonisti dei miei film, sia in quegli esteriori, negli ambienti. Tutto parlava di quello che, da bambino e poi da ragazzo, qui ho visto, ho percepito».
La sua carriera si sviluppò lontano da queste strade.
«Sono andato via, per lavorare nel cinema, oltre 50 anni fa. Ci ho messo un bel po’ di tempo, che oggi mi appare perduto, per comprendere che mi sarei realizzato facendo il regista e non suonando il clarinetto, attività per la quale era necessario un talento che non avevo. Ma ci volle molto per ammetterlo».
Lo capì, dicono le cronache, grazie a Lucio Dalla.
«Gli sono grato perché ascoltandolo ho trovato la mia strada, che non era certo quella della musica. Peccato aver frequentato e conosciuto Lucio in maniera più approfondita solo agli esordi della sua carriera, quando era un promettente jazzista e poi quando, molti anni dopo, ha scritto la colonna sonora per due miei lavori. Sarebbe stata, la sua vita, un soggetto interessante per un film».
‘Bologna Experience’ si arricchisce da oggi di una nuova sezione dedicata al suo lavoro.
«Sì, metteremo in scena un lungo film su Bologna vista attraverso una serie di spezzoni di mie pellicole. E’, semplicemente, lo sguardo di un bolognese che, da giovane, pensava che il ‘particolare’ della sua città coincidesse con l’ ‘universale’. Come se non esistesse un mondo possibile al di là di via San Felice. Poi son cresciuto, ma un po’ di questa illusione è rimasta dentro di me. E dentro i miei film».
Lei sarà a Bologna anche il 14 e 15 ottobre per condurre un workshop sul suo lavoro al Teatro Il Celebrazioni. Cosa vorrebbe trasmettere ai partecipanti?
«Vorrei insegnare, più che la tecnica registica o il mestiere dell’attore, a scoprire, e valorizzare le proprie capacità. Ognuno, dentro di sé, ha un sogno, una utopia. Dobbiamo però essere capaci di comprendere quale è la nostra strada e come percorrerla. E’ frutto della mia esperienza professionale. Sarebbe stato molto importante, per me, avere al fianco un ‘maestro’ che mi indicasse subito, con chiarezza, la via del cinema».